La sera in cui Roby Baggio decise di entrare nella storia dell’Inter.
Il primo a provare a tranquillizzarmi fu mio padre: “Tranquillo, a San Siro con il Real vinciamo”.
Papà era stato a San Siro tre volte nella sua vita, tutte e tre le volte negli anni ’80, tutte e tre le volte in competizioni europee, tutte e tre le volte contro il Real Madrid.
Tutte e tre le volte grandi prestazioni, belle, entusiasmanti.
Tutte e tre le volte inutili, perché poi quel Real Madrid, quello che Pezzali avrebbe definito “Grande Real” in una delle sue canzoni più belle, riuscì sempre nell’impresa di rimettere in piedi il discorso qualificazione al Bernabeu, strappando ogni volta il pass per il turno successivo.
Dannato Bernabeu.
Già, gli anni d’oro del “Grande Real”, un Real che, a dispetto del suo passato (e, all’epoca non lo sapevamo, anche del suo futuro), non riusciva più a imporsi sul vero tetto d’Europa, ma riusciva a essere temibile lo stesso. Riusciva a essere Grande, con la G maiuscola.
Nel 1998, però, le cose stavano un po’ diversamente: contro una squadra italiana in una notte olandese il Real Madrid aveva finalmente rialzato al cielo la Champions League grazie a una rete di Pedrag Mijatovic, probabilmente in fuorigioco; l’Inter, d’altro canto, aveva trionfato nella finale parigina di Coppa Uefa contro la Lazio, in un Parco dei Principi che aveva assistito forse alla miglior partita della carriera di Luis Nazario da Lima, Ronaldo, che quella sera vestiva il numero 10. Il Real, dunque, riabbracciava antichi fasti, ma l’Inter, con un trionfo in campo europeo e con le prestazioni del più forte giocatore del globo, poteva contare su nuove certezze, apparendo lontana da quella malinconica, poco vincente ma allo stesso tempo meravigliosa creatura degli anni ’80.
Altra differenza: questa volta non si gioca prima a San Siro ma a Madrid, e proprio al Santiago Bernabeu l’Inter riceve una sonora lezione dalle merengues, mettendo a repentaglio la panchina di Gigi Simoni, visto che il 2-0 finale era stato molto molto riduttivo per il gioco espresso. Dannato Bernabeu.
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Il film della sfida al Bernabeu.
Eppure stranamente mio padre, che rappresenta il prototipo dell’interista per eccellenza, quello che l’ottimismo non l’ha mai sentito nemmeno nominare, quello che è preparato a qualsiasi imprevisto sempre in agguato, era convinto che a San Siro avremmo vinto, e avremmo strappato il pass per i quarti di finale di Champions League.
La Tattica
In un San Siro pieno all’inverosimile va in scena una sfida molto tattica, cosa non del tutto in linea con la tendenza dell’epoca, visto che durante l’arco degli anni ’90 le squadre italiane avevano spesso battuto quelle spagnole, nazionale compresa, anche a causa di una fase tattica non studiata alla perfezione da parte degli iberici. Il Real Madrid si presenta in campo con un italiano 4-4-2, con una difesa molto “capelliana”, ricordando proprio gli insegnamenti dell’allenatore italiano che, nella stagione 1996/97, aveva conquistato la Liga sulla panchina Madrilena. Gli equilibri vengono un po’ meno a centrocampo, molto tecnico ed elegante ma forse deficitario dal punto di vista quantitativo, con la coppia centrale formata da Seedorf e Redondo, basando l’idea di gioco sulla proposizione ma perdendo molto in interdizione.
Molto diversa è invece la lettura dei nerazzurri, con Gigi Simoni che infoltisce molto la difesa e il centrocampo, anche se la presenza di Diego Pablo Simeone nella fase centrale del campo gli permette di poter contare sulla presenza di due punte, Ronaldo e Zamorano, nonostante spesso in campionato il tecnico vincitore della Coppa Uefa preferisca, quando possibile, schierare il solo brasiliano affiancato da un trequartista, spesso Youri Djorkaeff, qualche volta il nuovo arrivato Roberto Baggio, arrivato grazie a una scelta del presidente Moratti dopo la bella stagione con la maglia del Bologna. Simoni preferisce inoltre non voler lasciare troppo il pallino del gioco agli avversari e inserisce Paulo Sousa a cui viene fornito il compito di dirigere la regia nerazzurra, e poi fa vincere a Moriero il ballottaggio con Javier Zanetti, forse per provare a trovare il cross per Zamorano anche se, data la presenza di Roberto Carlos sulla stessa fascia, durante la ripresa entrambe queste scelte verranno cambiate.
La marcatura quasi completamente a uomo dell’Inter, durante l’arco di buona parte del match, rappresenta uno dei marchi di fabbrica della gestione simoniana, uno degli ultimi retaggi di passato prima del globale passaggio alla zona e alla difesa in linea.
Il primo tempo si conclude a reti inviolate eppure la sensazione è che possa essere l’Inter e non il Real a poter pungere da un momento all’altro. E infatti la puntura arriva a inizio ripresa: Ronaldo, vera spina nel fianco della retroguardia merengues, lascia partire il destro che trova la deviazione involontaria del compagno di reparto Ivan Zamorano e si insacca in rete.
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La partita di Ronaldo contro il Real.
Si ha la netta sensazione che la squadra nerazzurra possa vivere una delle sue serate europee da antologia, eppure su uno svarione difensivo Clarence Seedorf, che giusto un anno più tardi si sarebbe accasato proprio a San Siro, proprio con la maglia nerazzurra, sigla il pareggio di testa, non la specialità della casa.
E poi scatta l’ora del divino.
Roberto Baggio è uno di quei calciatori senza squadra e senza maglia, che è stato capace di far innamorare generazioni intere pur giocando in compagini rivali, come Milan, Juve e Inter; pallone d’oro 1993, protagonista assoluto nella spedizione azzurra in America del ’94, il numero 10 ha conquistato il soprannome di Divin Codino.
Quando al minuto 23 della ripresa rileva Ivan Zamorano, però, Baggio quel codino non lo ha più, tagliato insieme alla parte oscura del suo recente passato dopo le rotture con Juve prima e Milan poi e dopo l’esclusione dalla nazionale nell’intervallo tra i due mondiali.
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I 20 minuti di Roberto Baggio.
A dire il vero Baggio non entra proprio bene in partita e potrebbero risultare sanguinosi i primi due palloni persi che rilanciano la manovra offensiva del Real Madrid, ma al minuto 85, dopo aver tentato una combinazione con un onnipresente Simeone, sfrutta una carambola all’interno dell’area per concludere di destro sul primo palo e beffare Illgner, mandando in visibilio il pubblico di San Siro.
Se sul primo gol c’è la mano del caso sul secondo c’è tutta la magia dei piedi. Lo stop, il modo di portare avanti il pallone, la finta sul portiere, il tocco a porta vuota, tutto nel gol del 3-1 trasuda eleganza da tutti i pori, bellezza estetica e cattiveria agonistica in 7-8 secondi prima che undici calciatori si ritrovassero scaraventati nella porta sotto la curva nord ad ammucchiarsi e 80mila sconosciuti si unissero in una sola bandiera contenente due colori.
Quella serata consegnò all’Inter non solo la gloria della vittoria, ma anche tre punti importantissimi che permisero alla squadra di superare in vetta proprio il Real Madrid e conquistare poi, con la successiva vittoria con lo Sturm Graz, la qualificazione al turno successivo.
Fu il canto del cigno dell’Inter di Simoni, che pochi giorni dopo, nello stesso stadio, nella stessa porta, grazie a un destro all’ultimo secondo di uno Zanetti già “Tractor” ma non ancora “Il Capitano” riuscì a battere la Salernitana e a rilanciarsi prepotentemente in ottica scudetto, anche se la sera successiva, per una serie di decisioni che ancora oggi, a 20 anni di distanza, hanno dell’inverosimile, la panchina di Simoni saltò. E partite decisive non ce ne furono più.
Quel match da grande squadra fu anche, insieme a uno spareggio Champions col Parma, terminato col medesimo risultato, l’apice nerazzurro di Roberto Baggio, un DIVIN SENZA CODINO che con la sola forza della classe aveva messo in ginocchio i campioni in carica.
Fu anche il modo per esorcizzare una maledizione, quella del Real Madrid, finalmente eliminato in un confronto europeo dopo le delusioni del decennio precedente.
Ne restava un’altra di maledizione, in realtà, quella dello stadio.
Ma io, seppur senza dirlo, promisi a mio padre che prima o poi sarebbe stata infranta anche quella.
Potrà passare un anno, due, tre, potrà arrivare anche il 2010.
Prima o poi vinceremo al Bernabeu.